Questa scheda è un approfondimento specifico utile per questi percorsi:
. Realismo e romance
. Cinema e follia
. Il viaggio del cavaliere
. Alla ricerca del Graal
Miguel De Cervantes e la sua Creatura Don Chisciotte occupano un ruolo speciale nel nostro cuore e nei nostri corsi. Cervantes (1547-1616) ebbe una vita travagliata e difficile, non proprio da letterato o accademico. Fu soldato, prigioniero dei pirati a Tunisi per cinque anni, scomunicato, mutilato della mano sinistra nella battaglia di Lepanto, incarcerato due volte… (per saperne di più trovate su Wikipedia una sua bio affidabile) nonostante questo è a lui che dobbiamo un libro chiave nella storia della cultura occidentale, un romanzo indimenticabile, che ha influenzato, anche se non prima di un secolo dalla pubblicazione, la nascita del romanzo moderno, e di conseguenza anche il cinema, che prende la maggior parte delle proprie storie dai romanzi, gli è profondamente debitore.
“In un borgo della Mancia, il cui nome ricordar non voglio, viveva, or non è molto, un gentiluomo di quelli con la lancia nell’armadio”. Così inizia, dopo una quantità di preamboli, prologhi, dediche e sonetti, il primo capitolo della prima parte del primo volume de El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha (in italiano semplicemente Don Chisciotte), pubblicato nel 1605.
Don Chisciotte è un hidalgo di campagna che per aver letto troppi libri di cavalleria ha sostanzialmente perso il senno e, rispolverate le arrugginite armi di famiglia, se ne va in giro nella Spagna del 1600 in cerca di improbabili avventure cavalleresche, deriso e talvolta scacciato in malo modo da quelli a cui crea problemi con i suoi deliri su invasioni dei mori, giganti, streghe, dame e cavalieri malvagi.
Uno degli aspetti più emblematici del Chisciotte è il suo rievocare in modo grottesco i fasti immaginari della cavalleria del passato (quella romanzesca), mentre quella reale, al tempo di Cervantes e del romanzo, ha quasi completamente smarrito il suo significato sociale, la sua importanza militare e il suo peso politico. Le cariche di cavalleria sono ormai rese vane dalle fanterie ben organizzate e armate, tanto degli stati nazionali quanto delle grandi Signorie; il perfezionamento delle armi da fuoco e in particolare dell’artiglieria - come ben si vede nel bellissimo Il Mestiere delle Armi (2002) di Ermanno Olmi - ha reso perforabili le corazze e più facile disarcionare i cavalieri; l’ascesa ormai inarrestabile della borghesia mercantile sta ridimensionando il prestigio sociale della nobiltà (soprattutto di quella piccola come gli hidalgos) che vede il rischio concreto di perdere progressivamente i propri privilegi, e il potere del danaro si sta sostituendo a quello della nascita. Ma soprattutto, in questa fase storica, le persone colte stanno perdendo progressivamente gusto e interesse nei racconti fantastici e inverosimili di tanta letteratura cavalleresca (che già Ariosto aveva iniziato a prendere affettuosamente in giro nel Furioso), a vantaggio di un maggior realismo e contemporaneità delle narrazioni e soprattutto stanno smettendo di identificare l’eroe tipico di questo genere, il cavaliere senza macchia e senza paura, come il punto più alto della perfezione umana. A questa progressiva dissacrazione culturale il Don Chisciotte dà una sorta di colpo definitivo e ci vorranno non meno di duecento anni perché la cultura europea riscopra il fascino letterario e iconografico di questo mondo, attraverso la rinascita delle leggende legate al ciclo bretone e al Sacro Graal.
- Tanto delle fortune quanto del tramonto della cavalleria ci occupiamo diffusamente nel corso Il viaggio del Cavaliere.
- Del ritorno di interesse per il mondo magico del ciclo di re Artù e dei cavalieri della tavola rotonda ci occupiamo nel corso Alla ricerca del Graal
Il tema della follia è caro alle letterature sin dai tempi più lontani, a partire dalla follia di Nabucodonosor nell’Antico Testamento e dalla frequenza con cui essa è rappresentata nella tragedia greca (Aiace, Antigone, la sacerdotessa Io, sono alcuni dei casi più noti). In queste opere la follia è strettamente legata al rapporto con Dio o con gli dei, che alterano i comportamenti dei personaggi. Più che di una malattia sembra quindi trattarsi di una punizione o di un monito divini, come se comportamenti tanto gravi non potessero originarsi all’interno dell’animo umano.
Nel 1600 il tema rinasce con significati diversi, decisamente più umanistici. Nei tre grandi capolavori di quest’epoca che trattano di quest’argomento – oltre al Don Chisciotte, Amleto e Re Lear di William Shakespeare – la follia, reale o “simulata” come quella di Amleto, sembrano svelare lati nascosti e più autentici dell’animo dei protagonisti. L’Hidalgo Quijano è noto a tutti quelli che lo conoscono come una brava persona (lo chiamano “el bueno”), piena di buon senso. Può parlare di politica, agronomia, tecniche di allevamento del bestiame con il più sereno discernimento, ma appena si tocca un tema che possa anche solo in parte sfiorare quelli dei romanzi cavallereschi si trasforma in Don Chisciotte e perde del tutto il lume della ragione tanto da prendere un gregge di pecore per un esercito di mori, una taverna per un castello e (esempio celeberrimo) dei mulini a vento per dei giganti.
Le follie “letterarie” di questi personaggi, così come quella altrettanto celebre dell’Orlando ariostesco, più che a dei quadri sintomatici realistici di un qualche disturbo mentale, sembrano rimandare a un’idea fantasiosa e creativa della follia, intesa come un espediente dell’autore che permette ai personaggi di rivelarsi aldilà dei lacci soffocanti del tempo in cui vivono (Don Chisciotte), delle rango e delle specifiche circostanze (Lear, Amleto), delle stesse convenzioni poetiche dell’epoca (Orlando).
Nel caso particolare di Amleto a interessare non è tanto la bizzarra follia della sua simulazione, quanto Il profondo disagio depressivo che progressivamente emerge nel testo rendendolo incapace di agire, perennemente afflitto dai dubbi e dalle alternative. In questo rivelarsi di un inconscio (e non già più di un volere divino) che costringe i personaggi ad essere diversi da quello che vorrebbero o si immaginerebbero di essere (lo stesso Don Chisciotte alla fine dell’opera riconosce la sua “insensatezza” e si rammarica del tempo perduto e dei danni fatti a causa di essa), sta la grande importanza di queste opere nel prefigurare l’idea del “disagio” psichico.
Non sono tantissimi i tentativi di portare il Chisciotte al cinema, sia per la notevole mole del romanzo (circa mille pagine nella bella edizione Bompiani dei Classici della Letteratura), sia perché il romanzo ha una struttura paratattica, cioè privilegia l’accumulo di singole avventure, per lo più indipendenti l’una dall’altra, a un arco narrativo forte e definito, che si sviluppi attraverso una serie di passaggi classici (sulla definizione e la frequenza dei quali, nella narrativa ma soprattutto nel cinema, è molto utile e noto il libro Il Viaggio dell’eroe, dello sceneggiatore americano Christopher Vogler).
Tant’è che al personaggio più famoso della letteratura occidentale non è bastata nemmeno la comicità e la profonda umanità che Cervantes vi ha instillato per renderlo appetibile al cinema. Parliamo più o meno di una dozzina di film (pensate che del Dottor Jekyll di Robert Louis Stevenson si contano almeno un’ottantina di trasposizioni cinematografiche). Pochi titoli dunque, la maggior parte dei quali non certo memorabili. Un rapporto sfortunato e difficile di cui le migliori testimonianze sono il Don Chisciotte di Orson Welles e L'Uomo che uccise Don Chisciotte di Terry Gilliam (2018). Due film entrambi “tangenziali” rispetto all'industria cinematografica ed entrambi emblematici, nelle rispettive vicissitudini, della complessità di un’operazione di questo genere. Non tanto per il risultato effettivo (che nel caso di Welles non siamo nemmeno in grado d dire quanto sia simile alle intenzioni del regista, visto che la versione attuale è stata montata, usando materiali di lavorazione, 7 anni dopo la sua morte) quanto per la curiosa convergenza nelle gestazioni interminabili delle due opere. Welles infatti ci lavorò dal 1955 fino agli anni Settanta e Gilliam dal 1998 al 2018.